Il distacco dalle cose, il bisogno di silenzio, l’assenza di figure umane. Sono questi gli elementi che per primi colpiscono della pittura di Guerino Taresco, nata nell’urgenza di dare forma e colore a voci, misteri insondabili, venti impetuosi che agitano l’animo di chi ha fatto dell’arte una ragione di vita. Perché, che si parli di pittura di musica o di letteratura, fa poca differenza. Quello che conta è il segno. Una nota su uno spartito, un verso celebre sulla pagina di un libro, una pennellata decisa sulla tela: le opere rinviano alla natura plurisignificante di questa rassegna pittorica che in punta di piedi entra nel cuore dello spettatore. Con il loro linguaggio muto, i quadri parlano parole oscure e inaccessibili, babeliche e misteriose, sommesse o travolgenti.

Le opere trovano qui uno spazio di condivisione senza bisogno di avviamenti critici. Queste poche righe vogliono, con i migliori auspici, accompagnare, non introdurre, come in una sorta di racconto-parafrasi.

Nelle opere, caro lettore-spettatore, troverai paesaggi, pastiche, astrattismo, linee che si fondono e confondono. C’è un movimento dialettico di linee e colori: un dialogo a due tra cielo e terra, tra alto e basso, caotico e ordinato, caldo e freddo, verticale e orizzontale. Nelle sovrapposizioni, a volte stratificate, è l’esigenza di uscire dalla bidimensionalità per una conquista di spazio in cui resta al di qua della tela lo sguardo sornione dello spettatore. Chi dipinge ricerca un altrove nel cui orizzonte siano possibili epifanie e assoluzioni e il mistero dell’essere si schiuda. O forse spazi in cui la ricerca di esotismo è negata. Conta fare deserto, mettersi in ascolto, per ritrovarsi in paesaggi marocchini o argentini come in un duo di azzurro cielo e verde pampa. Vi sono, poi, gli specchi d’acqua in cui si riflettono finti canneti o trabocchi pericolanti. In questa prospettiva, l’acqua diventa metafora agglutinante per eccellenza, come infinito rinvio, eterno altrove rispetto al qui ed ora per tornare ad un passato sepolto nella memoria, verso mitiche archeologie interiori.

Le opere sembrano farsi avanti e dire “Io” per raccontare la loro storia: vi sono tele di desolazione in cui le uniche parole sono affidate a tinte quasi sbiadite; tele arrabbiate che tentano con euclidea precisione di ricomporre il garbuglio del mondo; tele di riconciliazione: lembi di terra che paiono tendersi la mano, nell’impossibilità di comunicare; tele affaccendate in cui i colori si uniscono a formare scomposte figure; tele di negazione di ogni abbraccio con la consorteria umana. Vi sono storie di solitudine, di viaggi con sé stessi, sull’onda dei ricordi o della profezia. Nel felice sperimentalismo delle tecniche, convivono cavalieri erranti che affrettano il cammino e accarezzando i loro sogni s’inoltrano nel folto del bosco insieme a lune che, come lampadari, pendono dal soffitto del cielo finché un Albatros, «principe delle nubi», con «le sue ali di gigante» s’inabissa nella brutalità dell’umano, lui così divino, così immortale.

In una passione nata quasi per caso ma approdata già a nobili risultati, è il respiro di chi prova a rivelare l’indicibile, adagio ma non troppo. La luce non si impone, ma accompagna un veliero nella sua traversata lenta sulla superficie delle acque, si insinua in un canyon enfatizzandone il passaggio, inumidisce il colore determinandone il suo sgocciolare dalla tela. I colori possiedono una personalità matura, gli accostamenti -talvolta audaci- seguono uno stile che va definendosi sempre di più.

Come in un concerto ogni strumento dell’orchestra sembra presiedere febbricitante a un rito sacro in cui note, ritmi, mani, archi, fiati si incontrano, così sulla tela esplodono gli accordi delle dita sul pennello e i colori, già in allerta per l’attacco, assecondano il ritmo della pennellata: andante o moderato. I colori si alternano secondo intervalli prolungati o fulminei. Forme e figure trovano il loro arpeggio, si succedono dall’alto in basso, da sinistra a destra, una dopo l’altra, guadagnando lo spazio bianco del pentagramma, della tela. In un crescendo di segni, tutto si svolge in silenziosa armonia e parla di un maestro che pur riconoscendosi quale «docile fibra dell’universo» ha il temperamento ardimentoso e saggio di chi, dopo aver traversato tempeste, sosta come una vecchia barca in una baia dimenticata, proprio lì dove tutto è iniziato.

Mariella Di Brigida

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