Perché “scritto sul corpo” e perché in questa giornata. Tante sono le tracce che il nostro corpo conserva, accoglie, mostra: tracce del tempo che scorre, tracce di una carezza, tracce di un “non amore”, di solitudine, di insicurezze. Attraverso nove tele dipinte da Guerino Taresco, i ragazzi rileggono in modo personale le figure rappresentate e danno loro nuova vita, cercando di trovare una “narrazione” che le veda protagoniste di momenti di vita personale. L’invito è quello a custodire l’energia possente del sentire, la forza dell’amore e dell’accoglienza, la cura e il rispetto.

Gli articoli degli studenti sono stati pubblicati dal 25 al 29 novembre su Mattioli's Chronicles, la mostra delle opere è nei locali del Polo Liceale R.Mattioli.

 

Giuseppe Colameo


SCONOSCIUTA

Flussi d’aria informi inebriati di freschezza e di natura accarezzano il dolce volto della ragazza che se ne stava seduta alla fine del molo di un lago. I piedi ciondolavano nel vuoto, gli occhi erano chiusi e la mente era sgombra dai pensieri. I capelli le vorticavano intorno al viso, scompigliati, senza cessare un momento, ricreando quasi il disordine che aveva dentro di sé.

Era quasi del tutto notte, il sole ormai era tramontato e lei cominciò ad osservare il suo riflesso nell’acqua. Si spinse leggermente avanti, così da protendersi e sfiorare con un dito, il velo limpido d’acqua. Un tocco. Un tocco leggerissimo. Un cerchio si espanse, seguito subito dopo da un altro e un altro ancora. Le creature del lago si mossero rapide, spaventate, per poi lasciare quel tratto vuoto, dando l’impressione di un lago senza vita. L’unica cosa che Amélie riusciva a scorgere, era una scia di un azzurro luminoso che girava su stessa, la quale, dopo qualche momento, si fermò, come se si fosse accorta della presenza della ragazza che la osservava con i suoi occhi curiosi: non aveva mai visto qualcosa del genere.

L’essere luminoso si fermò per avvicinarsi a lei, mettendo il capo esattamente dove il dito aveva creato i cerchi concentrici d’acqua. Cominciò a mutare forma, prendendo le sembianze di Amélie. Quest’ultima rimase sorpresa per ciò che era appena accaduto e non riusciva nemmeno a distogliere lo sguardo da quell’essere, identico a lei. Pareva essere una parte di sé. Il suo “riflesso” fece un largo sorriso e poi una capriola, lentamente, permettendo all’acqua di farla galleggiare e assecondare i suoi movimenti.

Il fruscio delle foglie continuava incessante – da ormai ore – a riempire i silenzi e, a quanto sembrava, non aveva intenzione di smettere. La luna splendeva lucente e si distingueva maestosamente dalle stelle, che apparivano come dei piccoli diamanti, ognuna splendente a modo suo. Il chiarore di tutte queste, creavano un’atmosfera calma e accogliente: illuminavano la schiena della ragazza, quasi volessero accarezzarla.

Intorno agli alberi e i piccoli cespugli, i quali nascondevano i piedi dei primi, c’erano delle piccole luci che sparivano e spuntavano ripetutamente. Questi piccoli corpicini luminosi danzavano, intorno alla ragazza che – ancora incredula – osservava quella forma luminosa, mimante ogni suo piccolo movimento o gesto.

Amélie, per la sorpresa, accennò una piccola risata e il suo “riflesso” fece altrettanto. Sentì l’eco della sua voce e quando udì una domanda, si irrigidì all’istante:

Non sorridere troppo, non vedi che ti si chiude di più un occhio?”

Se ne era accorta solo ora. Era una piccolezza, ma la faceva sentire comunque insicura.

Ma che naso hai?”

Uno normale” pensò lei. Fece scorrere l’indice su di esso e ne percepì una piccola gobbetta. “È così grave?” si chiese, rimuginando su questo dubbio.

Aggiustati un po’ quelle sopracciglia, sono orribili! E le gambe quando te le depili?!”

Amélie ora cominciava a sentirsi davvero insicura e raccolse le ginocchia al petto come se facendo ciò, riuscisse a tenere lontane quelle piccole lucciole che le sussurravano frasi di non gradimento nei suoi confronti.

Ma come ti vesti? Non fanno per te quei vestiti. La maglia è troppo scollata.”

Quelle parole correvano come fiumi nella sua mente e frantumavano gli ultimi pezzi di autostima.

Devi truccarti un po’ di più, ti si vedono le occhiaie” e ancora “Ma che taglio di capelli è quello?”

Amélie smise di piangere. Si alzò in piedi e con le guance ancora rigate dalle lacrime, tentò di suggerire al suo riflesso cosa dovesse modificare del suo aspetto.

La ragazza mimò la forma di un naso perfetto e l’essere, che poteva essere scambiato per un suo riflesso se non fosse dotato di vita propria, cercò di seguire le istruzioni che gli venivano dati. Una volta era il naso, poi arrivarono gli occhi che dovevano essere totalmente simmetrici, né troppo sporgenti ma nemmeno troppo piccoli. Il sorriso doveva essere signorile e la risata cortese. I capelli sempre a posto e non con tagli maschili: corti ma non troppo. Le sopracciglia e le gambe sempre ben curate, non ci dev’essere nemmeno l’ombra di un pelo! Il trucco più pesante e più coprente e la cicatrice sulla guancia non dev’essere assolutamente visibile. Con le mani al livello dell’ombelico, mimò anche una vita più piccola, un obiettivo importante che Amélie doveva assolutamente raggiungere. Per ultimo, suggerì all’essere – che ora emanava una luce più debole – un modo di vestire più coprente, ispirata nuovamente dalle voci che le ronzavano continuamente intorno.

La figura era davvero magnifica: snella, bellissima e incantevole. C’era solo una cosa che non andava bene, la più importante tra tutte. Il suo riflesso aveva assunto un’aria triste mentre lisciava le pieghe del suo vestito. Non aveva più quel sorriso smagliante di poco fa.

Amélie sentiva di aver intuito il perché di tale tristezza e ricevette la conferma da un lieve sussurro con l’intonazione della sua voce che le alitava dietro:

Così non sei più tu…”

L’essere di un blu luminoso cominciò a scendere nelle profondità del lago mentre il suo splendore, moriva con lui. La ragazza non ci pensò un attimo e – appena notò che la figura stava cominciando a sprofondare – le tese immediatamente una mano. Cercò di tirarla con tutte le sue forze pur di salvarla. I rami tremavano ancor più di prima e il vento soffiava forte. Delle piccole increspature si formarono sulla superficie dell’acqua, alimentate anche da Amélie che cercava di salvare una parte di sé. Sebbene fosse stremata, riuscì nell’intento. Riuscì a salvare quel pezzo della sua anima, la parte più importante, il suo io interiore, e sì, la abbracciò forte. Le disse che non sarebbe cambiata per nessuno. Non importa quali sono le regole che detta la società in cui vive, lei continuerà ad essere e a mostrare, sempre e solo la vera Amélie. Il loro abbraccio creò scintille di un bianco acceso che inglobò le due, simbolo della purezza.

Quella scia luminosa è tornata ora dentro la ragazza, il posto in cui sarebbe sempre dovuta stare. Magari non mi crederete nemmeno, ma ognuno di noi emana una propria luce. Quella di Amélie era di un celeste splendente. Tu invece, conosci la tua? E ricorda: non diventare MAI una sconosciuta per te stessa.

Splendi. Sempre.

Elisa Vallasi


QUEL CHE RESTA

 

A volte si fermava.

Accadeva all’improvviso, senza che lo volesse. Era come se la sua mente a un certo punto smettesse di funzionare, incapace di prendere decisioni, incapace di dare ordini, e come un’orchestra senza direttore, anche il suo corpo si immobilizzava. Durava poco, una manciata di secondi, e poi si ritrovava lì, lì dove si era fermata. Si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

 

A volte si fermava.

Lo voleva. Aveva bisogno di farlo. Poi si guardava intorno, con gli occhi spenti, senza parlare, un macigno in petto. Il cuore accelerava e lei si sentiva senza fiato. Era in mare, con la sola mano che affiorava dall’acqua. Sotto scalpitava, e più scalpitava, più si sentiva affogare. E poi riusciva a risalire, con i polmoni alla spasmodica ricerca d’aria, aria che più entrava e più il corpo ne voleva.

Era uscita fuori dal suo controllo.

Ma all’improvviso l’aria c’era, la sentiva, e allora si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

 

A volte si fermava.

E pensava. Rivedeva scorrere la sua vita, momento dopo momento, lacrima dopo lacrima, e le lacrime cominciavano a scorrere, senza un motivo preciso, pensando a quanto aveva perso. E a quello che restava. Si toccava il volto, le braccia, per avere un segno tangibile della sua presenza in quel preciso posto, in quel preciso istante. Si sentiva proiettata in una dimensione che non le apparteneva, il suo corpo non le apparteneva, un oggetto estrinseco, distante, vuoto. Lei non lo riempiva, e il corpo non conteneva lei.

Eppure era lì, seduta sul divano, o alla scrivania, o distesa a letto, ed era consapevole di essere lì, ma non si sentiva lì. Si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

 

Non lo era.

Cambiava ad ogni passo, plasmava le sue apparenze, indossava e si spogliava di abiti che non le si convenivano, che coprivano il suo essere e al tempo stesso la lasciavano nuda, indifesa. Era lei che doveva adattarsi agli altri, non il contrario. E cambiava, sì che cambiava, ma era sempre lei, era sempre la stessa di prima, la stessa di prima.

 

Prima.

C’era un prima? C’era. Nitido nella sua mente.

 

Si guardava allo specchio.

Di notte, con le luci soffuse. Le sembrava di scomparire. E la penombra che la circondava si fondeva con il suo corpo. Il suo corpo. Il suo.

 

Suo.

E osservava quel che restava di lei, una cornice sbiadita, persa nel buio, che le pareva racchiudere una tela già dipinta, ma non da lei. I colori depositati sul bianco della tela erano già decisi. E lei non li conosceva, non ne era padrona, non poteva cambiarli. Non riusciva a seguirli, a controllarli. Eppure quei colori su una tela già decisa le sfuggivano, colavano come le sue lacrime, che le solcavano il viso, come in quel momento lì. In quel momento, quello che aveva determinato un prima e un dopo.

E stava ancora davanti allo specchio.

Si abbracciava, stringeva le sue braccia. Si convinceva che quello che restava di lei era abbastanza. Che lei era abbastanza.

 

Era una donna. E come tale, la sua tela era già dipinta.

Ma aveva voglia di strapparla quella tela.

Lui non ci poteva più dipingere sopra.

E aveva voglia di urlare.

E lo faceva.

 

Poi si fermò.

Si portò le mani davanti al volto e strinse le dita.

Riuscì a parlare.

E non si fermò più.

 

Simone Di Minni

 


 

LA SIGNORA IN NERO

Scritto sul corpo c’è un codice segreto, visibile solo in certe condizioni di luce; quello che si è accumulato nel corso della vita si ritrova” (J. Winterson)

La signora in nero scatena emozioni e pensieri diversi. La combinazione dei colori è armonica. Il nero e il giallo esprimono l’oscurità e la luce, il verde, mischiato all’azzurro, dà equilibro e armonia alla tela. Il rosso, presente in piccola parte, regala vitalità.

Nel centro eccelle una figura che affiora col nero, avvolta in magnifici sprazzi di colore. E’ personificazione dell’animo femminile: delicato, intrigante, misterioso. I colori che incorniciano la forma ritraggono un ipotetico mondo caotico in cui la forma si avverte quasi fuori posto, altra da ciò che la circonda.

Il tormento non dà pace alla sua anima.

Federica De Dominicis


Noia”

 

Noia. Seduta su uno sgabello una donna volta lo sguardo. E’ un viso spento, disorientato, non mostra emozioni. L’abbigliamento scuro, quasi provocante, è indossato per abitudine, non aderisce più al corpo, non dona più forme sinuose, ma emerge preponderante sulla tela.

Stanca, demotivata.

Il silenzio che la circonda è illusione, in un’onda di pensieri che scorrono senza sosta. Il desiderio ormai affievolito sembrerebbe schiacciato dal grigiore della vita.

Ma in secondo piano c’è il rosso vivo, acceso da cogliere come opportunità di nuova energia, resilienza . Una sconosciuta che avvertiamo “vicina”.

Federico Di Lello

 


 

Sola

 

Una donna che ha subito violenza? E’ la prima cosa che potrebbe risultare e, riflettendo sul dipinto, mi sono detto: "sì, può essere".

"Sola". Il titolo dell’opera fa trasparire molto. Una donna che si sta vestendo, con il capo chinato, ad indicare la tristezza forse di una quotidianità svuotata di emozioni. Un essere che avverte la propria fragilità e la inadeguatezza dell’uomo che le vive accanto. Gli occhi non sono visibili, nascosti dalla lunga frangia bionda, ma nella mia mente sono grigi, socchiusi, forse vuoti, segno di quell’abitudine a subire indifferenza per la quale non dispera più.

Deve farci riflettere come il soggetto del quadro sia una sorta di storia “a specchio” per molte altre donne. Lo specchio riflette e fa riflettere.

Quello che dovrebbe essere un legame d’ amore, a volte può consumarsi, diventare sterile e solitario in una gabbia soffocante. Basterebbe ridare valore al quotidiano, agli affetti e mettere al primo posto il RISPETTO.

Quindi “ sì, può essere” , perché violenza è anche il non fatto e il non detto.

 

Riccardo Vicoli

 


 

INVIDIA

Qual è l’immagine dell’Invidia? Qui ci viene presentata nella composizione moderna e originale di una tela macchiata da colori vividi e penetranti. E’ un quadro dominato unicamente dalle tinte sfumate e dalla sagoma di una giovane ragazza dipinta di nero dal busto in su.

Il volto spensierato della giovane dagli occhi di cerbiatto è il soggetto principale di uno spazio senza forma né tempo, riempito da colori. Il marrone, il giallo e il rosso uniti al bianco della tela che rimane ampiamente visibile in tutto il quadro, creano un’atmosfera surreale e collocano il ritratto della giovane in una dimensione lontana e irraggiungibile in cui l’osservatore può solo fantasticare i luoghi dove vagano i pensieri della ragazza.

La protagonista si mostra in una posa naturale e vagheggiante, quasi compiaciuta, assorta nei propri pensieri mentre i capelli le volano al vento e sfumano nel quadro come macchie scure. La pittura scivola fino al fondo della tela lasciando sullo sfondo bianco le tracce della vernice gocciolante e marcando così la forza del colore e l’emotività dell’intero dipinto.

La ragazza del quadro è in grado di comunicare le proprie emozioni con l’espressività eloquente di uno sguardo e creare attorno a sé un’atmosfera magica che attrae l’osservatore in quello che è un puro sentimento di invidia. L’unico particolare che la protagonista del quadro mostra nella sua semplicità è un anello sull’anulare della mano sinistra che accoglie con tenerezza il viso.

Questo dettaglio suscita ulteriormente quello sembra essere il tema centrale del dipinto: un’emozione controllata che prende forma nella bellezza spontanea di una ragazza non curante del mondo e di ciò che le sta attorno.

Giuseppe Di Lella

 


 

RItratto di Donna

E’ seduta su una panchina della stazione ferroviaria, il mento poggiato sul palmo della mano, un sorriso accennato, ricorda la Monnalisa, l’espressione del suo viso è rilassata, i suoi occhi sembrano viaggiare. Sta guardando davanti a lei sei papaveri nati tra i binari, il polline del fiore è stato trasportato dal vento da chissà dove, sembrano così fragili con il loro stelo sottile come un filo ma in realtà resistono e continuano a vivere nonostante i treni passino su di loro. La donna è completamente incantata e non distoglie lo sguardo dai fiori ormai da qualche minuto. In un momento dai suoi occhi si può scorgere la delusione, un attimo dopo la speranza. Ogni papavero rappresenta per lei un ricordo, un momento in cui si è sentita sconfitta e un momento in cui ha capito di aver vinto.

Guardando il primo papavero pensa a quando era piccola e fin da subito la madre le insegnò a svolgere le faccende domestiche perché, secondo lei, una buona moglie manteneva la casa pulita e badava ai figli. Si sentiva inferiore, sfortunata di esser nata donna, all’età di otto anni lavava il pavimento mentre il fratello giocava nel giardino per poi rientrare e sporcarlo di nuovo. Ora guarda il papavero e desidera che ogni genitore spieghi alla propria figlia l’importanza dell’indipendenza economica, così che in futuro possa avere un compagno, non un padrone e che insegni a suo figlio a svolgere i lavori domestici, così che possa avere una compagna, non una serva.

Si sofferma sul secondo papavero, questa volta i suoi occhi esprimono felicità. Ripensa ai suoi genitori e alla loro convinzione che dovesse lavorare nella sartoria di famiglia. La valigetta che porta in mano è un simbolo di vittoria: nonostante non fosse appoggiata da nessuno, volle studiare per arrivare al suo obiettivo, laurearsi in giurisprudenza. Ora lavora in tribunale come giudice. Il suo desiderio è quello che ogni donna possa realizzarsi secondo le proprie aspirazioni credendo sempre in sé stessa, senza essere ostacolata da nessuno.

Il ricordo associato al terzo papavero sono i pranzi di famiglia, precisamente il momento in cui la sua vita diventava l’argomento della conversazione. Ricorrenti erano domande quali “Quando troverai un uomo con cui sposarti?”, “Quando avrai figli?”. Così lei cercava di fuggire. Per non sentirsi più in soggezione si rifugiava nel bagno per essere lontana da tutti. A questo punto guardava allo specchio il suo riflesso e vedeva un corpo dotato di mente e coscienza per poter decidere riguardo la sua vita. Si interrogava sul motivo per il quale ogni persona dovesse “sistemarsi” sposandosi e diventando genitore. Era inaudito per lei che la concezione della vita di una donna fosse unicamente quella di dover diventare moglie e procreare. Il suo desiderio era che nessuno potesse giudicare la vita altrui.

Il quarto papavero è il più alto tra tutti e rappresenta la sua più grande vittoria nella vita, la libertà, la giustizia. La donna riuscì a separarsi da quell’uomo violento che non l’apprezzava che la maltrattava fisicamente e psicologicamente. Al suo fianco provava paura, si sentiva di non valere nulla, era triste. Non riusciva a guardarlo negli occhi per quanto forte potesse essere il dolore che provava. Nel momento peggiore, quando ormai era stremata e non aveva più neanche le lacrime per piangere, si fece forza, non poteva continuare a soffrire in quel modo. Decise di denunciarlo, di chiedere il divorzio, nulla la fermò neanche le minacce e il suo coraggio la portò alla vittoria, conquistò la libertà, la giustizia, la serenità, una nuova vita. Il suo desiderio è quello che le donne non siano più vittime di alcuna violenza e che abbiano sempre la forza di denunciare perché la loro vita vale.

Il quinto papavero è il tragitto dal suo studio a casa. Ogni sera, dopo il lavoro, è costretta a passare tra vicoli bui della città e spesso le è capitato di essere infastidita da alcuni uomini. Cercavano attenzioni fischiandole come se stessero chiamando un cane, facendole dei complimenti come se un apprezzamento sul suo corpo fosse gradito.

Una sera, un uomo insistentemente cercò di fermarla, lei non aveva alcuna intenzione di conoscerlo e gli fece capire che la sua presenza non solo non era gradita anzi era molesta. Purtroppo tutto era inutile, la donna come ultima possibilità, ormai in preda al panico, decise di mentire affermando di esser sposata e che il marito l’aspettava alla fine del vicolo. A questo punto l’uomo decise di lasciarla in pace. Finalmente poté fare un sospiro di sollievo seguito da una sensazione di forte rammarico. Era stupita di quanto fosse efficace affermare di essere fidanzata o sposata per convincere un uomo a smettere di molestarla perché quest’ultimo porterà rispetto verso un uomo che nemmeno conosce prima di rispettare la donna di fronte a lui.

Infine l’ultimo papavero. Nel fiore la donna vede il suo ritratto. Vede una donna felice, serena, una donna che sa di valere che non si farà più abbattere da nessuno, una donna che non accetterà più alcun tipo di violenza sia fisica che psicologica. E’ diventata quella donna meravigliosa grazie alle sue esperienze, sia negative che positive, ma soprattutto per le sue scelte, e lei ha scelto di essere forte.

Prencipe Sara

 


 

GUERRIERA

E’ sorprendente vedere come i gemiti e le lacrime possano unirsi, miscelarsi tra di loro e fondere due situazioni che non dovrebbero mai entrare in contatto. I lividi spiccavano sulla pelle chiara, la quale si contorceva involontariamente rispondendo agli stimoli. Lacrime salate le rigavano il volto, lacrime di rassegnazione, tristezza, impotenza. I denti digrignavano, mordevano la lingua per il dolore. La schiena era ricoperta di brividi per via della fredda superficie della parete. Quella parete ocra che da un paio di anni accompagnava il suo sguardo dalle palpebre stanche ogni sera prima di coricarsi. Pensava che l’avrebbe sempre protetta, pensava che fosse un posto sicuro, eppure la parete di quella stanza stava ora assistendo a quella violenza.

Le lacrime non scorrevano più sul suo viso anche se i suoi occhi arrossati erano delle prove inconfutabili e nulla l’affliggeva più della sua dignità ferita. Dovettero passare giorni prima che lei riuscisse a parlare con qualcuno di quella difficile esperienza. Le parole le furono tirate fuori con la forza da sua sorella che l’aveva vista con lo guardo assente e, dopo aver notato i segni dell’aggressione sul corpo, l’aveva costretta a parlare, a raccontarle tutto tentando di reprimere la rabbia che stava covando dentro di sé. Ci vollero molte convincenti parole per far sì che quel crimine venisse denunciato alle autorità. Un racconto sempre interrotto da singhiozzi e lacrime, che non fermavano mai definitivamente il flusso di parole quando uscivano fuori dalla sua bocca con determinazione.

Metabolizzare un evento così significativo della tua vita non è affatto semplice e porta con sé delle importanti conseguenze, fisiche e psicologiche, che perdurano nel tempo. E’ come una ferita che si rimarginerà ma che non abbandonerà mai la tua pelle. Accadeva così anche alla nostra ragazza che aveva deciso di riprendere in mano la sua vita accettando di dover convivere con questa cicatrice interiore senza però doversene vergognare. Capì con il tempo di non dover nascondere il suo passato ed il suo dolore non avendo nessun tipo di timore. Decise di andare avanti con la sua vita riprendendo, tra le varie attività, il suo amato sport: la scherma. Uno sport che aveva sempre amato ma che mai aveva sentito più vicino. Prima di ogni incontro impugnava la sciabola con fierezza, la maschera era stretta dal braccio contro il suo corpo, i capelli biondi che aveva deciso di lasciar crescere, cadevano morbidi sulle sue spalle ed il suo sguardo era fiero ed austero. La scherma la rappresentava completamente perché era diventata una “guerriera” anche nella sua vita, al di fuori delle gare.

Stefania Capuano

 


 

CON LO SGUARDO DI UN UOMO

 

Sei sveglia? Sì, Che stupenda creatura che sei, donna mia. Ti guardo ad un passo di distanza, non mi muovo perché ti sto scrutando. Non so dipingere, tu sei un’opera d’arte. Chi ti ha fatto ha pensato a come ti muovi, coi tuoi capelli di seta, col tuo viso di fata col nasino all’insù

Donna mia, sono fortunato ad averti.

Sai, tu sei quello che mi merito. Ti ho avuta nel momento più brutto dei miei anni, sei arrivata tu e non potevo desiderare di meglio. Tutto quello che ho sofferto, i traumi, i rifiuti e le condanne, l’ho sofferti per te, perché potessi incontrarti. Eri fatta per me sin dal primo istante.

Non so perché non mi ami più. Io ti ho dato tutto quello che sono. Forse non ti basta. Ma non puoi abbandonarmi, senza di te non sono nulla. Lo capisci perché ora, donna mia? Non volevo farti del male, ma non potevo non farlo, avrei perso te e me stesso.

Non potrei sopportare che qualcuno ti strappasse via da me, mi spezzerebbe a metà. Per questo ti tengo legata a me, io ti A….

La donna del quadro rapida volta lo sguardo, con gli occhi smorza la parola: A ...il troppo, l’ossessivo, il possessivo, il compulsivo, l’egocentrico non comincia Mai con la A. Tutto ciò che eccessivo è solo Malato. Non può né chiedere ne’ dare Amore. Amore non fa male, non “graffia” sulla pelle il non vissuto, la codardia, le sconfitte, l’astio, l’ira, gli abbandoni. E’ una parola che non deriva da altre, la sua radice significa solo se stessa. E questo Basta. La donna sparisce. Appare sulla tela solo scritto sul corpo con una carezza. Ti A.

Luca Prosperi


  

 

Ai ragazzi e alle ragazze…


“Scritto sul corpo c’è un codice segreto, visibile solo in certe condizioni di luce...”


Qual è la nostra relazione con il corpo? Abbiamo un corpo o siamo un corpo?


Certamente abbiamo un corpo non come abbiamo un tablet, un’automobile, una casa. Il nostro
corpo ha a che fare con il nostro essere, con la nostra identità. Eppure, non semplicemente siamo un
corpo: nel nostro corpo è iscritta un’altra profondità. Innanzitutto, siamo un corpo sessuato e questo
carattere essenziale ci dice che siamo, solo entrando in relazione con l’altro. La differenza di genere
è la differenza ontologica che si riverbera in tutte le altre: nasciamo portando, in noi e con noi,
questa fondamentale traccia di desiderio dell’altro e di costante ricerca di reciprocità. All’Adamo
della Genesi, nella pienezza del Paradiso terrestre, non bastavano tutte le meraviglie della natura
incontaminata e divina: in tutta quella bellezza, Adamo si sentiva solo e, per questo, Dio volle fargli
un aiuto che gli fosse simile.
Simile, non uguale. E, così, mentre il corpo dell’uomo viene, spesso, associato alla forza e alla
dinamicità, quello della donna è considerato delicato e accogliente. L’anatomia della donna
comprende uno spazio vuoto, necessario per accogliere la vita: il vuoto che si riempie del desiderio
dell’altro, genera e nutre, cura e fa crescere. La presenza di questo vuoto e di questa possibilità di
accoglienza di vita, rende la donna più forte di quanto molto spesso si creda, intuitiva e creativa
perché profondamente legata al ciclo della vita e della morte. E non si tratta solo di generare
biologicamente, si tratta della struttura autentica del suo corpo, ossia di una caratteristica
sostanziale che diventa esistenziale. Ecco perché “La signora in nero” sembra altro da ciò che la
circonda. “Signora” è un termine che rimanda ai ruoli sociali comunemente richiesti alle donne e
nelle quali esse tendono ad essere identificate in modo esclusivo: figlia, compagna, moglie, madre,
lavoratrice. In tutti questi ruoli, spesso, il corpo viene considerato come accessorio, o
semplicemente utile, oppure oggetto di desiderio e di piacere. Quasi mai come luogo privilegiato
del divenire, condizione di comunicazione e sapienza antica e sempre nuova, espressione di forza e
fantasia, vita creativa. La donna, così, perde la sua capacità di guardarsi attraverso i suoi occhi e
rinuncia alla sua natura autentica e poliedrica. Oppure è costretta a rinunciarvi. E finisce per
considerare sé stessa esclusivamente “Con gli occhi di un uomo”, esperienza che, nel migliore dei
casi, è limitante e nel peggiore, è oggettivante, fino a diventare violenta e muta. Con la perdita di sé
stessa, della sua natura autentica, cosa resta alla bella “Signora”? “Quel che resta” è un corpo
spezzato, lacerato, forma senza sostanza, fantoccio che recita goffamente una parte: la sensualità
diventa grigia, triste e “Sola”, il desiderio si spegne nella “Noia” e diventa “Invidia”: gli occhi
brillano non per un guizzo originale, bensì sullo sfondo di una frustrazione rossa di rabbia e paura.
Fino a diventare “Sconosciuta” a sé stessa. La relazione fondamentale con la propria storia e con il
proprio corpo diventa liquida, come l’azzurro freddo che avvolge il corpo non più giovane. La
signora, saccheggiata e derubata, resta senza freschezza nè grazia, senza occhi nè mani. Il ventre è
ripiegato e stanco, non più capace di aprirsi alla vita e all’accoglienza degli altri. Occorre molta
forza interiore, occorre richiamare al centro di sè stessa tutte le sue energie più profonde, come un
esercito pronto al combattimento, per tornare a udire la sua voce interiore. Il nero libera i colori, i
capelli diventano luce: la Signora si scopre “Guerriera” e il corpo si veste di una nuova sinuosità e
di una inaspettata fierezza: la signora diventa donna.
Il “Ritratto di donna”, infatti, non è nella definizione di un corpo, ma nei tratti di un volto…una
osmosi continua fra l’interno e l’esterno, fra i suoi pensieri capaci di leggere la realtà che la
circonda e il suo cuore pulsante che trasforma in energia vitale tutto ciò che la avvicina, la penetra e
la attraversa.

 

Patrizia Ciccarella

 

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Scritto sul Corpo”

 

 Il Polo Liceale Mattioli di Vasto dedica anche quest’anno una riflessione sulla poliedricità ed unicità del mondo femminile. L’ONU dal 1999 ha istituito il 25 novembre come giornata internazionale dedicata alla sensibilizzazione sulla violenza di genere.

 

Perché “scritto sul corpo” e perché in questa giornata. Tante sono le tracce che il nostro corpo conserva, accoglie, mostra: tracce del tempo che scorre, tracce di una carezza, tracce di un “non amore”, di solitudine, di insicurezze. Attraverso nove tele dipinte da Guerino Taresco, i ragazzi rileggono in modo personale le figure rappresentate e danno loro nuova vita, cercando di trovare una “narrazione” che le veda protagoniste di momenti di vita personale. L’invito è quello a custodire l’energia possente del sentire, la forza dell’amore e dell’accoglienza, la cura e il rispetto.

Gli articoli degli studenti sono stati pubblicati dal 25 al 29 novembre su Mattioli's Chronicles, la mostra delle opere è nei locali del Polo Liceale R.Mattioli.

 

Giuseppe Colameo


SCONOSCIUTA

Flussi d’aria informi inebriati di freschezza e di natura accarezzano il dolce volto della ragazza che se ne stava seduta alla fine del molo di un lago. I piedi ciondolavano nel vuoto, gli occhi erano chiusi e la mente era sgombra dai pensieri. I capelli le vorticavano intorno al viso, scompigliati, senza cessare un momento, ricreando quasi il disordine che aveva dentro di sé.

Era quasi del tutto notte, il sole ormai era tramontato e lei cominciò ad osservare il suo riflesso nell’acqua. Si spinse leggermente avanti, così da protendersi e sfiorare con un dito, il velo limpido d’acqua. Un tocco. Un tocco leggerissimo. Un cerchio si espanse, seguito subito dopo da un altro e un altro ancora. Le creature del lago si mossero rapide, spaventate, per poi lasciare quel tratto vuoto, dando l’impressione di un lago senza vita. L’unica cosa che Amélie riusciva a scorgere, era una scia di un azzurro luminoso che girava su stessa, la quale, dopo qualche momento, si fermò, come se si fosse accorta della presenza della ragazza che la osservava con i suoi occhi curiosi: non aveva mai visto qualcosa del genere.

L’essere luminoso si fermò per avvicinarsi a lei, mettendo il capo esattamente dove il dito aveva creato i cerchi concentrici d’acqua. Cominciò a mutare forma, prendendo le sembianze di Amélie. Quest’ultima rimase sorpresa per ciò che era appena accaduto e non riusciva nemmeno a distogliere lo sguardo da quell’essere, identico a lei. Pareva essere una parte di sé. Il suo “riflesso” fece un largo sorriso e poi una capriola, lentamente, permettendo all’acqua di farla galleggiare e assecondare i suoi movimenti.

Il fruscio delle foglie continuava incessante – da ormai ore – a riempire i silenzi e, a quanto sembrava, non aveva intenzione di smettere. La luna splendeva lucente e si distingueva maestosamente dalle stelle, che apparivano come dei piccoli diamanti, ognuna splendente a modo suo. Il chiarore di tutte queste, creavano un’atmosfera calma e accogliente: illuminavano la schiena della ragazza, quasi volessero accarezzarla.

Intorno agli alberi e i piccoli cespugli, i quali nascondevano i piedi dei primi, c’erano delle piccole luci che sparivano e spuntavano ripetutamente. Questi piccoli corpicini luminosi danzavano, intorno alla ragazza che – ancora incredula – osservava quella forma luminosa, mimante ogni suo piccolo movimento o gesto.

Amélie, per la sorpresa, accennò una piccola risata e il suo “riflesso” fece altrettanto. Sentì l’eco della sua voce e quando udì una domanda, si irrigidì all’istante:

Non sorridere troppo, non vedi che ti si chiude di più un occhio?”

Se ne era accorta solo ora. Era una piccolezza, ma la faceva sentire comunque insicura.

Ma che naso hai?”

Uno normale” pensò lei. Fece scorrere l’indice su di esso e ne percepì una piccola gobbetta. “È così grave?” si chiese, rimuginando su questo dubbio.

Aggiustati un po’ quelle sopracciglia, sono orribili! E le gambe quando te le depili?!”

Amélie ora cominciava a sentirsi davvero insicura e raccolse le ginocchia al petto come se facendo ciò, riuscisse a tenere lontane quelle piccole lucciole che le sussurravano frasi di non gradimento nei suoi confronti.

Ma come ti vesti? Non fanno per te quei vestiti. La maglia è troppo scollata.”

Quelle parole correvano come fiumi nella sua mente e frantumavano gli ultimi pezzi di autostima.

Devi truccarti un po’ di più, ti si vedono le occhiaie” e ancora “Ma che taglio di capelli è quello?”

Amélie smise di piangere. Si alzò in piedi e con le guance ancora rigate dalle lacrime, tentò di suggerire al suo riflesso cosa dovesse modificare del suo aspetto.

La ragazza mimò la forma di un naso perfetto e l’essere, che poteva essere scambiato per un suo riflesso se non fosse dotato di vita propria, cercò di seguire le istruzioni che gli venivano dati. Una volta era il naso, poi arrivarono gli occhi che dovevano essere totalmente simmetrici, né troppo sporgenti ma nemmeno troppo piccoli. Il sorriso doveva essere signorile e la risata cortese. I capelli sempre a posto e non con tagli maschili: corti ma non troppo. Le sopracciglia e le gambe sempre ben curate, non ci dev’essere nemmeno l’ombra di un pelo! Il trucco più pesante e più coprente e la cicatrice sulla guancia non dev’essere assolutamente visibile. Con le mani al livello dell’ombelico, mimò anche una vita più piccola, un obiettivo importante che Amélie doveva assolutamente raggiungere. Per ultimo, suggerì all’essere – che ora emanava una luce più debole – un modo di vestire più coprente, ispirata nuovamente dalle voci che le ronzavano continuamente intorno.

La figura era davvero magnifica: snella, bellissima e incantevole. C’era solo una cosa che non andava bene, la più importante tra tutte. Il suo riflesso aveva assunto un’aria triste mentre lisciava le pieghe del suo vestito. Non aveva più quel sorriso smagliante di poco fa.

Amélie sentiva di aver intuito il perché di tale tristezza e ricevette la conferma da un lieve sussurro con l’intonazione della sua voce che le alitava dietro:

Così non sei più tu…”

L’essere di un blu luminoso cominciò a scendere nelle profondità del lago mentre il suo splendore, moriva con lui. La ragazza non ci pensò un attimo e – appena notò che la figura stava cominciando a sprofondare – le tese immediatamente una mano. Cercò di tirarla con tutte le sue forze pur di salvarla. I rami tremavano ancor più di prima e il vento soffiava forte. Delle piccole increspature si formarono sulla superficie dell’acqua, alimentate anche da Amélie che cercava di salvare una parte di sé. Sebbene fosse stremata, riuscì nell’intento. Riuscì a salvare quel pezzo della sua anima, la parte più importante, il suo io interiore, e sì, la abbracciò forte. Le disse che non sarebbe cambiata per nessuno. Non importa quali sono le regole che detta la società in cui vive, lei continuerà ad essere e a mostrare, sempre e solo la vera Amélie. Il loro abbraccio creò scintille di un bianco acceso che inglobò le due, simbolo della purezza.

Quella scia luminosa è tornata ora dentro la ragazza, il posto in cui sarebbe sempre dovuta stare. Magari non mi crederete nemmeno, ma ognuno di noi emana una propria luce. Quella di Amélie era di un celeste splendente. Tu invece, conosci la tua? E ricorda: non diventare MAI una sconosciuta per te stessa.

Splendi. Sempre.

Elisa Vallasi


QUEL CHE RESTA

 

A volte si fermava.

Accadeva all’improvviso, senza che lo volesse. Era come se la sua mente a un certo punto smettesse di funzionare, incapace di prendere decisioni, incapace di dare ordini, e come un’orchestra senza direttore, anche il suo corpo si immobilizzava. Durava poco, una manciata di secondi, e poi si ritrovava lì, lì dove si era fermata. Si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

 

A volte si fermava.

Lo voleva. Aveva bisogno di farlo. Poi si guardava intorno, con gli occhi spenti, senza parlare, un macigno in petto. Il cuore accelerava e lei si sentiva senza fiato. Era in mare, con la sola mano che affiorava dall’acqua. Sotto scalpitava, e più scalpitava, più si sentiva affogare. E poi riusciva a risalire, con i polmoni alla spasmodica ricerca d’aria, aria che più entrava e più il corpo ne voleva.

Era uscita fuori dal suo controllo.

Ma all’improvviso l’aria c’era, la sentiva, e allora si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

 

A volte si fermava.

E pensava. Rivedeva scorrere la sua vita, momento dopo momento, lacrima dopo lacrima, e le lacrime cominciavano a scorrere, senza un motivo preciso, pensando a quanto aveva perso. E a quello che restava. Si toccava il volto, le braccia, per avere un segno tangibile della sua presenza in quel preciso posto, in quel preciso istante. Si sentiva proiettata in una dimensione che non le apparteneva, il suo corpo non le apparteneva, un oggetto estrinseco, distante, vuoto. Lei non lo riempiva, e il corpo non conteneva lei.

Eppure era lì, seduta sul divano, o alla scrivania, o distesa a letto, ed era consapevole di essere lì, ma non si sentiva lì. Si guardava intorno e tutto era identico a prima. Lo era anche lei.

 

Non lo era.

Cambiava ad ogni passo, plasmava le sue apparenze, indossava e si spogliava di abiti che non le si convenivano, che coprivano il suo essere e al tempo stesso la lasciavano nuda, indifesa. Era lei che doveva adattarsi agli altri, non il contrario. E cambiava, sì che cambiava, ma era sempre lei, era sempre la stessa di prima, la stessa di prima.

 

Prima.

C’era un prima? C’era. Nitido nella sua mente.

 

Si guardava allo specchio.

Di notte, con le luci soffuse. Le sembrava di scomparire. E la penombra che la circondava si fondeva con il suo corpo. Il suo corpo. Il suo.

 

Suo.

E osservava quel che restava di lei, una cornice sbiadita, persa nel buio, che le pareva racchiudere una tela già dipinta, ma non da lei. I colori depositati sul bianco della tela erano già decisi. E lei non li conosceva, non ne era padrona, non poteva cambiarli. Non riusciva a seguirli, a controllarli. Eppure quei colori su una tela già decisa le sfuggivano, colavano come le sue lacrime, che le solcavano il viso, come in quel momento lì. In quel momento, quello che aveva determinato un prima e un dopo.

E stava ancora davanti allo specchio.

Si abbracciava, stringeva le sue braccia. Si convinceva che quello che restava di lei era abbastanza. Che lei era abbastanza.

 

Era una donna. E come tale, la sua tela era già dipinta.

Ma aveva voglia di strapparla quella tela.

Lui non ci poteva più dipingere sopra.

E aveva voglia di urlare.

E lo faceva.

 

Poi si fermò.

Si portò le mani davanti al volto e strinse le dita.

Riuscì a parlare.

E non si fermò più.

 

Simone Di Minni

 


 

LA SIGNORA IN NERO

Scritto sul corpo c’è un codice segreto, visibile solo in certe condizioni di luce; quello che si è accumulato nel corso della vita si ritrova” (J. Winterson)

La signora in nero scatena emozioni e pensieri diversi. La combinazione dei colori è armonica. Il nero e il giallo esprimono l’oscurità e la luce, il verde, mischiato all’azzurro, dà equilibro e armonia alla tela. Il rosso, presente in piccola parte, regala vitalità.

Nel centro eccelle una figura che affiora col nero, avvolta in magnifici sprazzi di colore. E’ personificazione dell’animo femminile: delicato, intrigante, misterioso. I colori che incorniciano la forma ritraggono un ipotetico mondo caotico in cui la forma si avverte quasi fuori posto, altra da ciò che la circonda.

Il tormento non dà pace alla sua anima.

Federica De Dominicis


Noia”

 

Noia. Seduta su uno sgabello una donna volta lo sguardo. E’ un viso spento, disorientato, non mostra emozioni. L’abbigliamento scuro, quasi provocante, è indossato per abitudine, non aderisce più al corpo, non dona più forme sinuose, ma emerge preponderante sulla tela.

Stanca, demotivata.

Il silenzio che la circonda è illusione, in un’onda di pensieri che scorrono senza sosta. Il desiderio ormai affievolito sembrerebbe schiacciato dal grigiore della vita.

Ma in secondo piano c’è il rosso vivo, acceso da cogliere come opportunità di nuova energia, resilienza . Una sconosciuta che avvertiamo “vicina”.

Federico Di Lello

 


 

Sola

 

Una donna che ha subito violenza? E’ la prima cosa che potrebbe risultare e, riflettendo sul dipinto, mi sono detto: "sì, può essere".

"Sola". Il titolo dell’opera fa trasparire molto. Una donna che si sta vestendo, con il capo chinato, ad indicare la tristezza forse di una quotidianità svuotata di emozioni. Un essere che avverte la propria fragilità e la inadeguatezza dell’uomo che le vive accanto. Gli occhi non sono visibili, nascosti dalla lunga frangia bionda, ma nella mia mente sono grigi, socchiusi, forse vuoti, segno di quell’abitudine a subire indifferenza per la quale non dispera più.

Deve farci riflettere come il soggetto del quadro sia una sorta di storia “a specchio” per molte altre donne. Lo specchio riflette e fa riflettere.

Quello che dovrebbe essere un legame d’ amore, a volte può consumarsi, diventare sterile e solitario in una gabbia soffocante. Basterebbe ridare valore al quotidiano, agli affetti e mettere al primo posto il RISPETTO.

Quindi “ sì, può essere” , perché violenza è anche il non fatto e il non detto.

 

Riccardo Vicoli

 


 

INVIDIA

Qual è l’immagine dell’Invidia? Qui ci viene presentata nella composizione moderna e originale di una tela macchiata da colori vividi e penetranti. E’ un quadro dominato unicamente dalle tinte sfumate e dalla sagoma di una giovane ragazza dipinta di nero dal busto in su.

Il volto spensierato della giovane dagli occhi di cerbiatto è il soggetto principale di uno spazio senza forma né tempo, riempito da colori. Il marrone, il giallo e il rosso uniti al bianco della tela che rimane ampiamente visibile in tutto il quadro, creano un’atmosfera surreale e collocano il ritratto della giovane in una dimensione lontana e irraggiungibile in cui l’osservatore può solo fantasticare i luoghi dove vagano i pensieri della ragazza.

La protagonista si mostra in una posa naturale e vagheggiante, quasi compiaciuta, assorta nei propri pensieri mentre i capelli le volano al vento e sfumano nel quadro come macchie scure. La pittura scivola fino al fondo della tela lasciando sullo sfondo bianco le tracce della vernice gocciolante e marcando così la forza del colore e l’emotività dell’intero dipinto.

La ragazza del quadro è in grado di comunicare le proprie emozioni con l’espressività eloquente di uno sguardo e creare attorno a sé un’atmosfera magica che attrae l’osservatore in quello che è un puro sentimento di invidia. L’unico particolare che la protagonista del quadro mostra nella sua semplicità è un anello sull’anulare della mano sinistra che accoglie con tenerezza il viso.

Questo dettaglio suscita ulteriormente quello sembra essere il tema centrale del dipinto: un’emozione controllata che prende forma nella bellezza spontanea di una ragazza non curante del mondo e di ciò che le sta attorno.

Giuseppe Di Lella

 


 

RItratto di Donna

E’ seduta su una panchina della stazione ferroviaria, il mento poggiato sul palmo della mano, un sorriso accennato, ricorda la Monnalisa, l’espressione del suo viso è rilassata, i suoi occhi sembrano viaggiare. Sta guardando davanti a lei sei papaveri nati tra i binari, il polline del fiore è stato trasportato dal vento da chissà dove, sembrano così fragili con il loro stelo sottile come un filo ma in realtà resistono e continuano a vivere nonostante i treni passino su di loro. La donna è completamente incantata e non distoglie lo sguardo dai fiori ormai da qualche minuto. In un momento dai suoi occhi si può scorgere la delusione, un attimo dopo la speranza. Ogni papavero rappresenta per lei un ricordo, un momento in cui si è sentita sconfitta e un momento in cui ha capito di aver vinto.

Guardando il primo papavero pensa a quando era piccola e fin da subito la madre le insegnò a svolgere le faccende domestiche perché, secondo lei, una buona moglie manteneva la casa pulita e badava ai figli. Si sentiva inferiore, sfortunata di esser nata donna, all’età di otto anni lavava il pavimento mentre il fratello giocava nel giardino per poi rientrare e sporcarlo di nuovo. Ora guarda il papavero e desidera che ogni genitore spieghi alla propria figlia l’importanza dell’indipendenza economica, così che in futuro possa avere un compagno, non un padrone e che insegni a suo figlio a svolgere i lavori domestici, così che possa avere una compagna, non una serva.

Si sofferma sul secondo papavero, questa volta i suoi occhi esprimono felicità. Ripensa ai suoi genitori e alla loro convinzione che dovesse lavorare nella sartoria di famiglia. La valigetta che porta in mano è un simbolo di vittoria: nonostante non fosse appoggiata da nessuno, volle studiare per arrivare al suo obiettivo, laurearsi in giurisprudenza. Ora lavora in tribunale come giudice. Il suo desiderio è quello che ogni donna possa realizzarsi secondo le proprie aspirazioni credendo sempre in sé stessa, senza essere ostacolata da nessuno.

Il ricordo associato al terzo papavero sono i pranzi di famiglia, precisamente il momento in cui la sua vita diventava l’argomento della conversazione. Ricorrenti erano domande quali “Quando troverai un uomo con cui sposarti?”, “Quando avrai figli?”. Così lei cercava di fuggire. Per non sentirsi più in soggezione si rifugiava nel bagno per essere lontana da tutti. A questo punto guardava allo specchio il suo riflesso e vedeva un corpo dotato di mente e coscienza per poter decidere riguardo la sua vita. Si interrogava sul motivo per il quale ogni persona dovesse “sistemarsi” sposandosi e diventando genitore. Era inaudito per lei che la concezione della vita di una donna fosse unicamente quella di dover diventare moglie e procreare. Il suo desiderio era che nessuno potesse giudicare la vita altrui.

Il quarto papavero è il più alto tra tutti e rappresenta la sua più grande vittoria nella vita, la libertà, la giustizia. La donna riuscì a separarsi da quell’uomo violento che non l’apprezzava che la maltrattava fisicamente e psicologicamente. Al suo fianco provava paura, si sentiva di non valere nulla, era triste. Non riusciva a guardarlo negli occhi per quanto forte potesse essere il dolore che provava. Nel momento peggiore, quando ormai era stremata e non aveva più neanche le lacrime per piangere, si fece forza, non poteva continuare a soffrire in quel modo. Decise di denunciarlo, di chiedere il divorzio, nulla la fermò neanche le minacce e il suo coraggio la portò alla vittoria, conquistò la libertà, la giustizia, la serenità, una nuova vita. Il suo desiderio è quello che le donne non siano più vittime di alcuna violenza e che abbiano sempre la forza di denunciare perché la loro vita vale.

Il quinto papavero è il tragitto dal suo studio a casa. Ogni sera, dopo il lavoro, è costretta a passare tra vicoli bui della città e spesso le è capitato di essere infastidita da alcuni uomini. Cercavano attenzioni fischiandole come se stessero chiamando un cane, facendole dei complimenti come se un apprezzamento sul suo corpo fosse gradito.

Una sera, un uomo insistentemente cercò di fermarla, lei non aveva alcuna intenzione di conoscerlo e gli fece capire che la sua presenza non solo non era gradita anzi era molesta. Purtroppo tutto era inutile, la donna come ultima possibilità, ormai in preda al panico, decise di mentire affermando di esser sposata e che il marito l’aspettava alla fine del vicolo. A questo punto l’uomo decise di lasciarla in pace. Finalmente poté fare un sospiro di sollievo seguito da una sensazione di forte rammarico. Era stupita di quanto fosse efficace affermare di essere fidanzata o sposata per convincere un uomo a smettere di molestarla perché quest’ultimo porterà rispetto verso un uomo che nemmeno conosce prima di rispettare la donna di fronte a lui.

Infine l’ultimo papavero. Nel fiore la donna vede il suo ritratto. Vede una donna felice, serena, una donna che sa di valere che non si farà più abbattere da nessuno, una donna che non accetterà più alcun tipo di violenza sia fisica che psicologica. E’ diventata quella donna meravigliosa grazie alle sue esperienze, sia negative che positive, ma soprattutto per le sue scelte, e lei ha scelto di essere forte.

Prencipe Sara

 


 

GUERRIERA

E’ sorprendente vedere come i gemiti e le lacrime possano unirsi, miscelarsi tra di loro e fondere due situazioni che non dovrebbero mai entrare in contatto. I lividi spiccavano sulla pelle chiara, la quale si contorceva involontariamente rispondendo agli stimoli. Lacrime salate le rigavano il volto, lacrime di rassegnazione, tristezza, impotenza. I denti digrignavano, mordevano la lingua per il dolore. La schiena era ricoperta di brividi per via della fredda superficie della parete. Quella parete ocra che da un paio di anni accompagnava il suo sguardo dalle palpebre stanche ogni sera prima di coricarsi. Pensava che l’avrebbe sempre protetta, pensava che fosse un posto sicuro, eppure la parete di quella stanza stava ora assistendo a quella violenza.

Le lacrime non scorrevano più sul suo viso anche se i suoi occhi arrossati erano delle prove inconfutabili e nulla l’affliggeva più della sua dignità ferita. Dovettero passare giorni prima che lei riuscisse a parlare con qualcuno di quella difficile esperienza. Le parole le furono tirate fuori con la forza da sua sorella che l’aveva vista con lo guardo assente e, dopo aver notato i segni dell’aggressione sul corpo, l’aveva costretta a parlare, a raccontarle tutto tentando di reprimere la rabbia che stava covando dentro di sé. Ci vollero molte convincenti parole per far sì che quel crimine venisse denunciato alle autorità. Un racconto sempre interrotto da singhiozzi e lacrime, che non fermavano mai definitivamente il flusso di parole quando uscivano fuori dalla sua bocca con determinazione.

Metabolizzare un evento così significativo della tua vita non è affatto semplice e porta con sé delle importanti conseguenze, fisiche e psicologiche, che perdurano nel tempo. E’ come una ferita che si rimarginerà ma che non abbandonerà mai la tua pelle. Accadeva così anche alla nostra ragazza che aveva deciso di riprendere in mano la sua vita accettando di dover convivere con questa cicatrice interiore senza però doversene vergognare. Capì con il tempo di non dover nascondere il suo passato ed il suo dolore non avendo nessun tipo di timore. Decise di andare avanti con la sua vita riprendendo, tra le varie attività, il suo amato sport: la scherma. Uno sport che aveva sempre amato ma che mai aveva sentito più vicino. Prima di ogni incontro impugnava la sciabola con fierezza, la maschera era stretta dal braccio contro il suo corpo, i capelli biondi che aveva deciso di lasciar crescere, cadevano morbidi sulle sue spalle ed il suo sguardo era fiero ed austero. La scherma la rappresentava completamente perché era diventata una “guerriera” anche nella sua vita, al di fuori delle gare.

Stefania Capuano

 


 

CON LO SGUARDO DI UN UOMO

 

Sei sveglia? Sì, Che stupenda creatura che sei, donna mia. Ti guardo ad un passo di distanza, non mi muovo perché ti sto scrutando. Non so dipingere, tu sei un’opera d’arte. Chi ti ha fatto ha pensato a come ti muovi, coi tuoi capelli di seta, col tuo viso di fata col nasino all’insù

Donna mia, sono fortunato ad averti.

Sai, tu sei quello che mi merito. Ti ho avuta nel momento più brutto dei miei anni, sei arrivata tu e non potevo desiderare di meglio. Tutto quello che ho sofferto, i traumi, i rifiuti e le condanne, l’ho sofferti per te, perché potessi incontrarti. Eri fatta per me sin dal primo istante.

Non so perché non mi ami più. Io ti ho dato tutto quello che sono. Forse non ti basta. Ma non puoi abbandonarmi, senza di te non sono nulla. Lo capisci perché ora, donna mia? Non volevo farti del male, ma non potevo non farlo, avrei perso te e me stesso.

Non potrei sopportare che qualcuno ti strappasse via da me, mi spezzerebbe a metà. Per questo ti tengo legata a me, io ti A….

La donna del quadro rapida volta lo sguardo, con gli occhi smorza la parola: A ...il troppo, l’ossessivo, il possessivo, il compulsivo, l’egocentrico non comincia Mai con la A. Tutto ciò che eccessivo è solo Malato. Non può né chiedere ne’ dare Amore. Amore non fa male, non “graffia” sulla pelle il non vissuto, la codardia, le sconfitte, l’astio, l’ira, gli abbandoni. E’ una parola che non deriva da altre, la sua radice significa solo se stessa. E questo Basta. La donna sparisce. Appare sulla tela solo scritto sul corpo con una carezza. Ti A.

Luca Prosperi


  

 

Ai ragazzi e alle ragazze…


“Scritto sul corpo c’è un codice segreto, visibile solo in certe condizioni di luce...”


Qual è la nostra relazione con il corpo? Abbiamo un corpo o siamo un corpo?


Certamente abbiamo un corpo non come abbiamo un tablet, un’automobile, una casa. Il nostro
corpo ha a che fare con il nostro essere, con la nostra identità. Eppure, non semplicemente siamo un
corpo: nel nostro corpo è iscritta un’altra profondità. Innanzitutto, siamo un corpo sessuato e questo
carattere essenziale ci dice che siamo, solo entrando in relazione con l’altro. La differenza di genere
è la differenza ontologica che si riverbera in tutte le altre: nasciamo portando, in noi e con noi,
questa fondamentale traccia di desiderio dell’altro e di costante ricerca di reciprocità. All’Adamo
della Genesi, nella pienezza del Paradiso terrestre, non bastavano tutte le meraviglie della natura
incontaminata e divina: in tutta quella bellezza, Adamo si sentiva solo e, per questo, Dio volle fargli
un aiuto che gli fosse simile.
Simile, non uguale. E, così, mentre il corpo dell’uomo viene, spesso, associato alla forza e alla
dinamicità, quello della donna è considerato delicato e accogliente. L’anatomia della donna
comprende uno spazio vuoto, necessario per accogliere la vita: il vuoto che si riempie del desiderio
dell’altro, genera e nutre, cura e fa crescere. La presenza di questo vuoto e di questa possibilità di
accoglienza di vita, rende la donna più forte di quanto molto spesso si creda, intuitiva e creativa
perché profondamente legata al ciclo della vita e della morte. E non si tratta solo di generare
biologicamente, si tratta della struttura autentica del suo corpo, ossia di una caratteristica
sostanziale che diventa esistenziale. Ecco perché “La signora in nero” sembra altro da ciò che la
circonda. “Signora” è un termine che rimanda ai ruoli sociali comunemente richiesti alle donne e
nelle quali esse tendono ad essere identificate in modo esclusivo: figlia, compagna, moglie, madre,
lavoratrice. In tutti questi ruoli, spesso, il corpo viene considerato come accessorio, o
semplicemente utile, oppure oggetto di desiderio e di piacere. Quasi mai come luogo privilegiato
del divenire, condizione di comunicazione e sapienza antica e sempre nuova, espressione di forza e
fantasia, vita creativa. La donna, così, perde la sua capacità di guardarsi attraverso i suoi occhi e
rinuncia alla sua natura autentica e poliedrica. Oppure è costretta a rinunciarvi. E finisce per
considerare sé stessa esclusivamente “Con gli occhi di un uomo”, esperienza che, nel migliore dei
casi, è limitante e nel peggiore, è oggettivante, fino a diventare violenta e muta. Con la perdita di sé
stessa, della sua natura autentica, cosa resta alla bella “Signora”? “Quel che resta” è un corpo
spezzato, lacerato, forma senza sostanza, fantoccio che recita goffamente una parte: la sensualità
diventa grigia, triste e “Sola”, il desiderio si spegne nella “Noia” e diventa “Invidia”: gli occhi
brillano non per un guizzo originale, bensì sullo sfondo di una frustrazione rossa di rabbia e paura.
Fino a diventare “Sconosciuta” a sé stessa. La relazione fondamentale con la propria storia e con il
proprio corpo diventa liquida, come l’azzurro freddo che avvolge il corpo non più giovane. La
signora, saccheggiata e derubata, resta senza freschezza nè grazia, senza occhi nè mani. Il ventre è
ripiegato e stanco, non più capace di aprirsi alla vita e all’accoglienza degli altri. Occorre molta
forza interiore, occorre richiamare al centro di sè stessa tutte le sue energie più profonde, come un
esercito pronto al combattimento, per tornare a udire la sua voce interiore. Il nero libera i colori, i
capelli diventano luce: la Signora si scopre “Guerriera” e il corpo si veste di una nuova sinuosità e
di una inaspettata fierezza: la signora diventa donna.
Il “Ritratto di donna”, infatti, non è nella definizione di un corpo, ma nei tratti di un volto…una
osmosi continua fra l’interno e l’esterno, fra i suoi pensieri capaci di leggere la realtà che la
circonda e il suo cuore pulsante che trasforma in energia vitale tutto ciò che la avvicina, la penetra e
la attraversa.

 

Patrizia Ciccarella

 

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